(Con l'articolo qui pubblicato inizia la collaborazione al sito da parte degli studenti del Liceo Dettori, in particolare con la redazione del giornale del Dettori da loro curato e già in circolazione col suo primo numero. Siamo particolarmente lieti di questa ulteriore collaborazione che attesta l'importanza e la centralità della "Voce degli studenti" nella nostra attività educativa. La loro curiosità e la loro intelligenza critica mostrano quanto questo obiettivo sia al centro delle nostre preoccupazioni nel formare, anche attraverso l'educazione civica, cittadini consapevoli del loro futuro ruolo nella società. A nome della Dirigente e dello staff web porgiamo gli auguri per una proficua e continua presenza degli studenti al sito della loro scuola)
La notizia dell'inaspettato arresto di Matteo Messina Denaro ha suscitato in tutta la penisola clamore ed interesse, ma anche falsa informazione e complottismo; Per queste ragioni abbiamo fatto in modo di poter avere un parere competente, che ci mostrasse al meglio le cause, le conseguenze e le modalità di cattura del latitante. Grazie al progetto della Fondazione Occorsio, abbiamo avuto l'opportunità di intervistare l'ex procuratore generale presso la corte di Cassazione Giovanni Salvi a proposito della incarcerazione, dopo 30 anni di latitanza, del boss mafioso Matteo Messina Denaro, avvenuta il 16 Gennaio 2023. Questa è stata un'occasione per parlare di un momento importante per la storia del nostro Paese.
Ma chi è Matteo Messina Denaro?
Nato a Castelvetrano il 12 aprile 1962; il padre Francesco Messina Denaro detto "Don Ciccio", era il capo del mandamento di Castelvetrano. L'ascesa del figlio all'interno di Cosa Nostra iniziò quando suo padre si schierò al fianco di Totò Riina nella seconda guerra di mafia tra il 1978 e il 1984. Concluso il conflitto tra le due fazioni con la vittoria dei corleonesi, i Messina Denaro divennero tra le famiglie più importanti di Cosa Nostra e gradualmente il potere passò dal padre Francesco a Matteo. Il curriculum criminale di Matteo Messina Denaro conta almeno 20 omicidi: è coinvolto nelle stragi del '92 e del '93, ma prima ancora, nel 1991 si sporcò le mani con l'omicidio di un albergatore che si era opposto alla presenza di uomini coinvolti con la mafia all'interno della sua struttura, e fu il mandante del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo tenuto in ostaggio per 779 giorni e poi strangolato e sciolto nell'acido.
Nei giorni successivi all'arresto sono state date molte versioni e interpretazioni riguardo alla cattura del latitante: alcuni pensano che sia stata una scelta del tutto autonoma, da parte di Messina Denaro, di consegnarsi alle autorità, altri invece ritengono che sia stato merito di un'operazione di polizia che ha avuto un risvolto positivo. Incuriositi dal dibattito e interessati a conoscere la sua personale opinione, abbiamo posto una domanda precisa all'ex procuratore Giovanni Salvi:
Come può essere considerata una vittoria dello Stato un arresto che apparentemente segue i tempi di Messina Denaro?
L'ex procuratore Salvi è del parere che soprattutto a proposito di queste vicende non ci si debba far condizionare dalle polemiche che vengono trasmesse e amplificate attraverso i mass media. Seguire, infatti, le vie del complotto giova alle organizzazioni criminali. La verità è che è stato molto difficile catturare Messina Denaro e lo Stato è riuscito ad identificarlo grazie ad un lavoro pulito e continuativo, sfruttando la situazione dovuta alla sua malattia, che lo ha inevitabilmente indebolito, dal momento che richiede una cura in strutture necessariamente pubbliche. Grazie alla correlazione di informazioni diverse si è riusciti ad individuare delle ipotesi investigative che si sono rivelate utili per la cattura. Attraverso diverse fonti, tra le quali anche intercettazioni telefoniche, si è venuto a sapere che era malato di tumore e, da altre fonti successivamente è emerso che aveva anche dei problemi alla vista. Intrecciando questi due elementi e quindi restringendo il campo di indagine, gli investigatori sono arrivati ad identificare un soggetto (il prestanome di Matteo Messina Denaro) che apparentemente si sottoponeva a queste cure, ma che in realtà stava benissimo. Messina Denaro perciò non ha mai deciso di consegnarsi, ma è stato arrestato.Un altro interrogativo riguarda la sua lunga latitanza:
Come è stato possibile che sia riuscito a non essere c atturato per 30 anni, nonostante fosse sotto gli occhi di tutti?
Secondo il dott. Salvi, la tranquillità della sua vita in latitanza, è frutto del consenso silenzioso della società. Tutti eravamo consapevoli che l'appoggio silenzioso della società verso le mafie non fosse finito, ma pensavamo che fosse cambiato e sicuramente diminuito. Si tratta di un consenso forzato basato sulla paura e in certi casi sul vantaggio che se ne può trarre a livello individuale. Basti solo pensare che la carriera criminale di Messina Denaro ebbe inizio con l'omicidio di un albergatore, ucciso solo per aver detto di non volere "dei mafiosetti" nel suo albergo. Questo tipo di vicende fa capire, in modo particolare a coloro che vivono nei quartieri sotto influenza mafiosa, che basta poco per arrivare alla morte. Tuttavia, la capacità di controllo da parte della mafia porta l'economia a spostarsi da quei territori: difficilmente si investe in un territorio dove si deve pagare il pizzo o si rischiano dei danni personali. Ciò vale sia per la Sicilia sia per altri territori del Sud Italia colpiti dalle organizzazioni criminali, come la Calabria e la Puglia. Quello che ci deve far riflettere è il fatto che ci siano persone che sostengono che non siano veri i capi d'accusa di cui è imputato: "è sempre stata una persona perbene".
Abbiamo poi chiesto al procuratore in che modo si possa biasimare una persona impaurita davanti ad un'istituzione criminale come la Mafia.
Il procuratore ha convenuto che un atteggiamento di questo tipo si debba sì biasimare, ma allo stesso tempo anche comprendere. E importante - ha affermato — da parte dello Stato avere un rapporto molto aperto con la città e con il territorio. Ci ha raccontato, a questo proposito, della sua esperienza, quando è stato procuratore a Catania, del suo interesse per i problemi della città e delle sue visite nelle scuole per parlare con i bambini e i ragazzi. Nel territorio siciliano, ma non solo, è paradossale la compresenza di abitanti che desiderano lasciarsi alle spalle, superare ed opporsi al controllo della mafia e di altri che invece si piegano al controllo delle mafie.
Per rendere maggiormente evidente questa realtà, ci ha raccontato la storia di un complesso sportivo a Librino, un quartiere di Catania, costruito per le olimpiadi universitarie degli anni '90 con diverse strutture, tra cui un campo da rugby, e successivamente abbandonato e ridotto in macerie. Dei ragazzi del luogo con l'aiuto di un giocatore di rugby avevano dato vita a una squadra allenandosi con costanza pur in condizioni di degrado. Avevano riparato da soli una parte del bagno e una della palestra e avevano ricavato uno spazio per giocare a rugby. Grazie all'intervento del dott. Salvi si riuscì a dare loro in concessione il campo da rugby e a sistemare il luogo come era stato richiesto. Due volte vennero loro bruciati i locali e il pulmino, ma loro non si sono rassegnati nonostante i soprusi.
Anche le scuole - dice il procuratore Salvi - sono essenziali nella campagna dello Stato contro la mafia. La mafia, come le altre organizzazioni, non può rappresentare un modello. Quello che bisogna fare è non abbassare la guardia nonostante questo segnale positivo, anzi sfruttare l'occasione per forzare la mano.
Cosa Nostra come tutte le organizzazioni e come tutte le istituzioni non è un monolite, è sempre stato molto diviso all'interno, con tante lotte di potere e diverse opinioni. Per comprendere meglio l'evoluzione delle modalità operative di Cosa Nostra facciamo un passo indietro agli anni più cruenti e importanti, per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata.
Tra la fine degli anni '60 e la fine degli anni '80 infatti si scatenarono due guerre di mafia che videro contrapposte l'area mafiosa dei dialoganti con lo stato e con la politica, i quali persero la guerra, e il gruppo dei Corleonesi, di cui faceva parte Messina Denaro, e che decise di fare una svolta strategica che mirava a prendere il controllo di tutta la situazione politica e economica tramite le stragi e la forza militare. I Corleonesi vinsero entrambe le guerre di mafia, ma commisero un grosso errore di valutazione, poiché ritennero che la strategia violenta avrebbe fatto indietreggiare lo stato e le forze dell'ordine di fronte al pericolo, ma così non avvenne e questo portò ad un graduale allontanamento tra la componente deviata dello Stato e la mafia. Cosa nostra allora fu costretta ad abbandonare la strategia militare e ad adattarsi alle nuove esigenze. Messina Denaro, pur nascendo nell'area stragista, è quello che, a seguito del maxiprocesso del 1986, gestì il cambiamento dell'organizzazione; è plausibile che il boss sia riuscito a rimanere nell'ombra per così tanti anni proprio per il basso profilo che ha mantenuto durante la latitanza. Con questo cambio si abbandonano quindi le stragi e si passa a una strategia economica volta esclusivamente al guadagno.
È interessante vedere come negli anni l'opinione pubblica e le istituzioni hanno compreso la mafia e ne hanno preso consapevolezza. Si può notare come sulle relazioni dei procuratori generali presso le corti di appello siciliane negli anni '70, '80 e '90 la parola "mafia" viene utilizzata sempre più spesso. Si può prendere anche come esempio l'approccio che ha avuto la chiesa rispetto al fenomeno mafioso, a partire dalle lettere pastorali.
Nel 1963 quattro carabinieri vennero assassinati a Ciaculli da una Giulietta carica di tritolo, sino a quel momento la chiesa non aveva preso posizione, anzi il Vaticano aveva sempre criticato il primate di Palermo chiedendo di esporsi in merito. Con la strage di Ciaculli si rompe il silenzio: la successiva lettera pastorale parla finalmente della mafia, tuttavia semplificando il problema. Col passare degli anni così come nel resto d'Italia anche la Chiesa come istituzione prende atto di questo problema e sempre di più ne denuncia le azioni oltraggiose. Celebre è l'immagine di Wojtyla nel 1993 nella piana di Agrigento quando ricorda le stragi del '92 e gli attentati della mafia. Si nota la veemenza con cui attacca tutto ciò che ruota attorno al mondo mafioso: "convertitevi perché verrà il giorno in cui sarete giudicati". Questo è il cambio che c'è stato, irreversibile, ma non ancora sufficiente.
Indubbiamente si sono fatti grossi passi avanti sotto questo punto di vista, ormai nessuna figura autorevole o pubblica osa dire che la mafia non esiste o che sia solo un fenomeno da niente, ma questo è frutto della storia e di un processo durato anni e anni. Tuttavia, come già visto dalle interviste fatte nel Trapanese c'è ancora qualcosa che blocca questo processo. Bisogna educare alla resistenza di un nuovo tipo di mafia, più difficile da contrastare e da condannare. Quando c'è il sangue nelle strade è facile indignarsi, è meno facile invece farlo quando avviene una speculazione edilizia.
Si è discusso, in particolare nell'ultimo periodo, riguardo alla pratica delle intercettazioni come strumento di intercettazione e al 41-bis come pena troppo dura, lei personalmente cosa ne pensa?
Il dott. Salvi sottoscrive l'equilibrio stabilito dalla Corte costituzionale. Non è, inoltre, d'accordo con chi definisce il 41-bis "carcere duro", questa misura - spiega - non è una misura che ha come scopo quello di far soffrire maggiormente il detenuto. Tanti attentati sono stati ordinati da dentro il carcere, il 41-bis è stato un provvedimento efficace per eliminare questo rischio. E stato oggetto di discussione anche l'uso nelle indagini delle intercettazioni, le quali sono invece uno strumento fondamentale per la lotta alle mafie. Il dibattito pubblico confonde le intercettazioni con il cattivo uso di ciò che è raccolto con le intercettazioni: in passato ci sono state fughe di notizie sulle intercettazioni. Tuttavia, si tratta di uno strumento fondamentale di cui ora non si può fare a meno.
Giacomo Manno e Lorenzo Trudu 5^ B